Manciate di case irregolari sparse come semina; frontoni collinari che sbucano taglienti da sotto l'orizzonte e rendono lo scenario come di cartapesta; una pianta circolare, incavata come la bocca di un cratere, una città tappezzata di cemento - che costruisce sul cemento senza raccoglierne mai le mecerie.
In questo pregno spigolo di mondo, almeno due dimensioni si incrociano, e sono quelle che l'etnocentrica, orgogliosa pratica del giusizio, vivente nell'omogeneo e mai nel difforme, può dare: fiera di sprezzante, incontrollabile superbia. L'atto di accorgersi di questo sempre imparziale ritratto retorico - di per se sufficente ad imboccare il sentiero dell'auto-coscienza critica - se non mi tratterrà dal sentirlo, può quanto meno evitarmi di doverlo professare come scienza estetica.
Ai miei occhi dunque, il presente a Yerevan è promiscuo, traditore, ingannevole.
C'è un presente distante, l'ho scorto. Come fosse storia, antico, rudereccio, leggendario, incomprensibilmente splendente; se ne sta la, una volta dietro un ricurvo edificio, un'altra appolaiato sul dorso di una montagna, talvolta persino in fondo alla strada, ma sempre alla stessa distantza, e più cammini più lui è altrove, nel raggio di alcune centinaia di metri, tutto attorno in modo diseguale, ma sempre alla stessa diastanza.
C'è un presente distante, l'ho scorto. Come fosse storia, antico, rudereccio, leggendario, incomprensibilmente splendente; se ne sta la, una volta dietro un ricurvo edificio, un'altra appolaiato sul dorso di una montagna, talvolta persino in fondo alla strada, ma sempre alla stessa distantza, e più cammini più lui è altrove, nel raggio di alcune centinaia di metri, tutto attorno in modo diseguale, ma sempre alla stessa diastanza.
Poi c'è un presente che riconsco, come riconoscerei varicella e pustole da batterio. Indicatori visibile di contaminazione che evocano una sola immediata certezza: quella del segno. C'è qualcosa di noi qua, o meglio, anche del nostro mondo, o quantomeno maledettamente comune al nostro: mi rifersico in particolar modo all'uso del costume pubblicitario-carismatico. L'uso che ne viene fatto, mi incolla i piedi al suolo in modo brutale...
Da un lato ne vien fuori un effetto parodiale, carnevalesco, con la messa in scacco dell'ideologia-globalizzazione nell'uso pagliaccesco dell'oggetto-messaggio capillarmente diffuso, presenza possibile di almeno un margine tra l'indossato e l'indossatore, tra contenuto e contenitore(1), invocante come uno stato di disagio. Dall'altro, l'uso che ne viene fatto è però religioso - nelle forme, nella maniera cosi come nella frequenza (scandita millimetricamente in un tempo che non scorre) sino al trapelante significato che tale impiego deve avere in questo contesto: visibilità, che chiama uguaglianza, che genera inoppugnabile conformismo.
E magari il tutto credendosi culturalmente liberi, mentre si sta solo imitando, con i costumi di scena portati li dalla nuova via della seta.
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(1) Si vuole richiamare la figura del Leonardi F. per il prestito di questo duo concettuale...
...non ho capito...
RispondiEliminaa
:-)
RispondiElimina...non fa niente...
:)
RispondiEliminaa