venerdì 18 dicembre 2009

Meeting

Stamattina ho presentato i risultati del lavoro sul Karabakh nel corso di una tavola rotonda alla sede dell'ACNIS a Yerevan.
Potrete trovare qualche dettaglio nei seguenti link:
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Сейчас я готов уехать.
С ностальгией за дом мой, которая скоро станет стойким желанием быть здесь.
Это место подождёт мне...

mercoledì 16 dicembre 2009

Saghmosavanq

Gitarella fuori porta: in uno di quei posti che di solito non visiti, espulsi inplausibilmente dai luoghi preselezionati poichè non evocativo della storia, della cultura, delle tradizioni. Non turistici insomma.
Ci son capitato anch'io per caso, infatti, solo perchè un amico qui possiede un pezzo di terra, e ci teneva a mostrarmela. Una campagna qualunque dell'armenia, delimitata da uno strapiombo; una chiesa innerita e diroccata di non si sa bene quanti anni poco distante, bestie che pascolano, qualche sentiero battuto seguito parallelamente da un canaletto per l'irrigazione semicongelato;terrapieni di zolle polverosi e fredde. Si sta cominciando a coltivarla questa terra quasi vergine, dice. Ma ora è inverno, e d'invero l'Armenia è silenziosa, immobile, morta. Sono riuscito a distinguere dei pomodori e dei noci. Ma anche dove la terra è spoglia, sono i segni dell'aratro e della recente lavorazione che mi inducono a capire che qui c'è vita. I ricchi l'hanno addocchiata, aggiunge: dall'altra parte della strada, infatti, cominciano a ergersi le loro sfarzose residenze stagionali.

Ma per il momento, sono ancora il candido isolamento e l'abbandono bucolico le sensazioni che mi procura.

domenica 13 dicembre 2009

-7

Il 21 atterro a Roma. Torno a casa.
In questa mia Italiuzza scombussolata e tanto agognata da chi non ci vive...ad una settimana dal mio ritono comincio a rivederne integralmente la sagoma all'orizzonte, carnosa e meticcia, attraveso i mezzi informatici di cui dispongo.
Emergono scenari usuali, ripetitivi...contestazioni ed insulti, proiettili giuridici fatti passare per innoque leggiucole, paladini della legalita intirizziti e insonstanziali: e poi cult sempreverdi: volti grondanti sangue, aggressioni, miracolati.
E LUI che alla fine vince, in un modo o nell'altro, aspettando il momento giusto per assumere le sembianze della vittima sacrificale, capro espiatorio sorridente e redento. Il solito, insomma. Ho proprio vogli di tornare....
Comunque, in Italia siamo forse giunti alla sclerosi civile? Se cosi fosse non è di certo da ieri. Personalmente non lo credo, ma me lo auguro vivamente. Sarebbe insolito, che dico, rivoluzionario, esser affetti da tale patologia di massa: un nobile malessere per un paese mai svezzato, attendista e paraculo come il nostro. In ogni caso, dovesse mai esplodere una sindrome del genere, credo finirebbe all'Italiana: in un lampo di mutismo dis-allarmante, tranquillizzante, castrante.
Sto per tornarci in mezzo a quel famialiare caos di sensi mediatici ottenebranti e demotivanti che è l'Italietta scalza e impiastricciata... "Teatro dell'azzenza", così V. Capossela apostrofa Milano. Il mio paese è cromosomicamente dirottato verso una celere metamorfosi che lo induca ad esser Una Grossa Milano 2?
Non lo so. Se così fosse, ciò allegerirebbe di gran lunga la vita affaccendata di molti dei nostri rappresentanti parlamentari, e son certo che in un paio di decadi diverrebbe proprio ciò che la maggioranza dell'elettorato voleva. Sogno realizzato da un governo incline all'autocontaminazione.

Il sistema politico italiota post-darwinista: in cui il più furbo determina l'ambiente atto alla propria sopravvivenza sociale.
Urrà...

martedì 8 dicembre 2009

18 DICEMBRE 2008 - Final Meeting




Confermata la conferenza definitiva di presentazione e discussione del progetto di ricerca socio-antropologica nel Nagorno-Karabakh, condotto dal sottoscritto fra il settembre e l'ottobre di quest'anno, intitolato:

Some Proofs for a Karabakh Armenians Understanding

Avrò l'onore ed il piacere di beneficiare della partecipazione attiva di Mr. Richard Giragosian - Direttore dell' Armenian Center for National & International Studies - il quale introdurrà l'evento con una panoramica complessiva sugli aspetti geopolitici e strategici concernenti la regione del Karabakh, e della Dott.sa Ilenia Santin - Prof.ssa di Lingua Italiana presso la Yerevan Brusov University, e con una carriera diplomatica alle spalle - nel ruolo di traduttrice-agevolatrice del sottoscritto.
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Moderatore: Dott. Bruno Scapini - Ambasciatore d'Italia in Armenia
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Prevista partecipazione da parte di: staff ACNIS; staff Ambasciata Italiana; Laureandi presso la Brusov University; alcuni Docenti tra quelli del Dipartimento di Antropologia dell'Accademia delle Scienze di Yerevan oltre che della Yerevan State University; rappresentanze ONU & OSCE.
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A breve dettagliati ragguagli!

giovedì 3 dicembre 2009

Geghard

Un foro di panismo religioso, un sodalizio armonioso che accoppia materialmente ambiente e struttura architettonica, luogo di culto isolato ed attorniato da guglie rocciose, in cui l'antico cristianesimo armeno si fonde con la roccia, con il paesaggio, facendo dell'uomo e del suo Dio un tutt'uno con la natura.
Ignoro quali circostanze artistiche e/o strumentali indussero i monaci ha costruire nel XIII secolo una parte del monastero di Geghard direttamente dentro la montagna. Si sa per certo che il complesso cenobitico, con le celle monastiche ricavate scavando cunicoli nella roccia, risale al IV secolo. La chiesa, parte più giovane di tutta la struttura, riassume esemplarmente l'operato classico dell'architettura armena medievale. Ad essa si accede dal lato sinistro, dove la sua pianta muraria si conficca nella montagna, trovandovi forse un appoggio strutturale, e di li si entra nelle sue segrete, stanze fredde e buie, dove a segnare la strada ci son solo le centinaia di candele giallastre accese di fedeli.
Si narra che l'antico complesso fu fondato personalmente da San Gregorio l'Illuminatore, nel luogo in cui sgorgava una sorgente sacra: questa fonte è ancora viva, e ha scavato un sottile canale naturale che trapassa da angolo ad angolo la cripta principale. Oggi non manca chi vi lancia una moneta, chi si immerge parzialmente nella pozza principale, chi ne approfitta per portarne a casa un campione. Il sacro e il pop-folk si compenetrano in ogni luogo del mondo.
Il monastero divenne inoltre celeberrimo in quanto custodiva la presunta "punta" della lancia che trafisse il costato di Cristo, portata sino in Caucaso dall'apostolo Taddeo, oggi custodita al Katolikhos di Echmiadzin. Il nome di questo complesso monastico difatti significa in armeno "Monastero della Lancia".
Le cripte, piuttosto numerose, si allacciano le une alle altre attraverso cunicoli e gallerie che - per intenderci - non permettono ad una macchina fotografica piuttosto scarsa come la mia, di fare memoria.
Le pareti interne di viva roccia, sono lavorate e incise con tutta la simbolgia di rito, con quei motivi che spesso ho ritrovato presso le strutture cerimoniali incontrate lungo il mio cammino, sia in Armenia che nel Karabakh. I solchi che tracciano acquisiscono un riflesso gessato al flesh delle macchine, frutto del calcare che si è via via annidato e sedimentato, risultato della forte umidità.

domenica 29 novembre 2009

Il Tempio di Garni


Il tempio di Garni, in stile Ionico, è dedicato a Mitra e fu costruito nel I secolo d.C. dall'imperatore d'Armenia Tridate I, grazie ai finanziamenti che questi ottenne da Nerone. Unico superstite di un complesso di templi distrutti subito dopo la conversione al cristianesimo. Un barlume di architettura ellenistica che racconta dell'influenza politico-culturale che l'antica Grecia aveva su questa regione. Ampiamente ricostruito dopo un terremoto che lo abbatté quasi integralmente, sembra un collage di pprzioni originali e fac-simili (una minima parte, va detto): nel complesso, evocatorio e suggestivo. Internamente si è conservato l'altare cerimoniale.
Nei secoli succesivi alla cristianizzazione dell'impero, fu una zona cinta da torri e mura, delle quali una minima parte è rimasta intatta, utilizzata come residenza estiva dai re d'armenia. Tutto attorno gli scavi proseguono nel tentativo di dissotterrarne la villa imperiale. Il canyon sottostante, con il passaggio del fiumiciattolo Azad, la rende effettivamente una zona incantevole e rilasssante.
Buona per una domenica in compagnia, alla ricerca della storia antica di questa regione nei luoghi in cui essa si racconta.

venerdì 27 novembre 2009

Ararat

Finalmente...
Eccolo qua, prima volta che mi si presenta davanti all'improvviso con la macchinetta in tasca. Colgo l'occasione per mostrarlo anche a voi...

Più si penetra nell'inverno e più spesso compare....o meglio, compaiono, il Piccolo e il Grande Ararat...a ricordare che la Turchia è vicina.
Oggi ho provato a fare il biglietto per tornarmene a casa...missione fallita.

Comunque, ho immaginato fosse venuto fuori per salutarmi...

Inoltre, sopra Yerevan son sbucate montagne invisibile prima, tutte innevate, come lucidate a nuovo...Ma quanto sono stato chiuso in casa?!
Magari non le avevo mai notate? In quel pendant estivo/ottobrino si confondevano con l'orizzonte mattonato di tufi e basalti, le prime cime arse e sbuciacchiate, con la vegetazione risecchita e impiastricciata...

Bah, sia come sia, domani le mie sorelline mi portano fuori città! Vado a fare il turista...

domenica 22 novembre 2009

working

Prigioniero delle mie idee... Ad esser onesto, più perseguitanto dal sudaticcio bisogno di sembrare a me stesso di averne, cosicché non mi apparia sterile inerzia la mia vita.
Non voglio divenire così vigliacco da smettere del tutto di pensare. Eppure a volte guardarsi le punta delle dita senza nulla aggiungere è così rilassante. Non vorrei neppure pensare così a lungo e così intensamente da dimenticare di condividere questo pianeta con dei miei simili, che esso è abitato da altri pensieri e percorso da altre traiettorie interpretative.
Noia esangue al momento; me ne sto qua vestito di assillante cecità intuitiva, sfibrato dalla voglia di prendermi un pò in giro, di chiudere di colpo i libri e scappare verso la periferia.
Come sempre, mi verrebbe da dire.
"Com'è il tuo cuore, così è il tuo Dio". Mi pare che Feuerbach dicesse qualcosa del genere...A lungo andare temo d'esser divenuto un fanatico del mio cuore. Credo di aver perduto o snellito qualche potenziale o fattuale relazione sentimental-amicale per questo motivo...
Dovrei perder nuovamente il mio Dio per trapassare la seconda imene dell'auto-inculturazione, scrollarmi di dosso ciò che ho creduto di imparare tutto da solo e penetrare al di là di me stesso, un confine così inviolabile sino ad oggi. Se significhi abbandonarsi nell'assenza generalizzata e nuotare nell'ubriachezza sempiterna, oppure ricominciare dall'inizio e per sempre, come in un secondo parto, solo un pò più consapevole, questo lo ignoro...

Intanto sfumacchio una sigaretta dal terrazzo del secondo piano di una lussuosa residenza del quartiere dove un tempo risiedevano i membri del soviet e le personalità influenti della nomenklatura.
Yerevan si fa tersa e sfuocata quando viene la notte. Le luci non sono sufficienti a donarle un chiaro-scuro che ne accentui le profondità e le distanze. Qualche passeggero black-out ogni tanto la mette a tacere definitivamente. Il lavorio edile la fa assomigliare ad un cantiere permanente. Una metropoli buia e rumorosa.

Dall'oscurità fan capolino mille finestrelle, mille celle di isolamento.

giovedì 19 novembre 2009

...multicultural riddle

Due battute veloci, valide solo a convalidare la mia presenza nel mondo e testimoniare che sono sopravvissuto. Il soggiorno caucasico si dilata, per diversi motivi: coincidenze astratte che determinano la rotta del mio viaggio.
Passo le mia giornata chiuso in camera a infarcirmi di nozioni di "diritto internazionale" e "multiculturalismo". A inizio dicembre mi spetta di condurre una seduta d'approfondimento incentrata su taluni aspetti della ricerca nel Karabakh in relazione a tali tematiche: di fronte alle rapresentanze Onu; sulla labirintite da "leggi più che puoi e cerca di capire" si affaccia molto spesso un eccitamento elementare e banale.
La tana che mi sono scavato è gonfia di intermezzi e pubbliche relazioni tipo famiglia nella prateria: Amalia che passa a fare le pulizie, Christine che mi porta il caffe a pomeriggio inoltrato, Antonio che mi saluta al ritorno dal lavoro, lo studente inglese in tirocinio all'ambasciata che sgranocchia qualcosa di croccante, peta e sogghigna immeditamente dopo...
Dalla finestrella del mio guscio vedo oramai calata la coperta invernale che ha fatto di Yerevan una città inprovvisamente più fredda, colorata, splendente. Blu patinato, tagliente splendore, lucida e assiderante atmosfera: a poco a poco tutti i detriti nubeggiante sono stati spolverati via dal cielo, togliendogli profondita ma facendolo incommensurabilmente più avvolgente. L'Ararat sbucca sempre più spesso a perforare i contorni della città come in un atto sessuale. Imponente e narciso, vuole che lo si guardi.
Sono immobilizzato sul concetto di "riconoscimento"... penso che ci resterò ancora a lungo.
Devo convincermi che non corrisponda ad una forma di super-dipendenza giuridico-filosofica dettata dal dominio extra-pratico degli Stati-Nazione.
Aspetto di mentirmi bene, poi vado avanti...

martedì 27 ottobre 2009

Le vette di Gandzasar

Il Karabakh è un luogo montano, come detto. In alcune delle sue parti, gli spaccati più angusti e semi-incontaminati, compare un indubbio aspetto selvaggio. Ci sono così tanti rientranti e strettoie prima di raggiungere il luogo predestinato, che sei quasi obligato a goderti lo spettacolo e ad apprezzare il suo ordine naturale.
Sui versanti delle montagne che costeggi talvolta sbuca del rossastro tufo, o del basalto, più spesso viva roccia calcarea; in dirittura per il lago Sevan abbiamo potuto ammirare una colata di ossidiana che ricopriva tutto il lato della montagna.
Più spesso però, è la vegetazione boschiva a fornire una coperta scura alle montagne, che ospitano come di consueto villaggi più o meno grandi, assisi fra le sue coscie.

E' il caso questo, delle scenografie che hanno accmpagnato il nostro viaggio a Gandzasar.

Questo monastero è cinto da mura ancora intatte, ed è uno dei tre simboli del Karabakh cristiano, assieme ad Amaras e Dadivank.
La sua costruzione inizia nel 1216 per ordine del principe di Khachen, Hasan-Jalal Dawla, e si conclude nel 1238. Verra consacrata due anni dopo, per poi divenire culla culturale degli armeni del Karabakh, detenendo il ruolo di Catholicos di questa regione sino al XIX secolo.

Gli armenisti, e specialmente coloro che si occupano di critica dell'arte, sostengono che in
questo complesso monastico, ma soprattutto nella cattedrale di S. Giovanni il Battista, vi sia concentrato il succo dell'arte costruttiva armena: nell'uso della cupola ad ombrello incorporata entro la pianta a croce, con le due camere angolari;
negli stili preferenziali quali i colonnati e le rifiniture ornamentarie in basso rilievo;
nelle decorazioni concentrate sugli angoli sia interni che esterni, enfatizzati da vivaci rilievi.


Le pareti esterne sono finementi e meticolosamente intarsiate di passi biblici in lingua armena. Entro le mura, in tutta l'area che attornia la cattedrale, un paio di ulivi e un teppeto erboso da Olimpico - al nostro arrivo ancora bagnato dalla pioggia del primo mattino - concludono l'opera. Affacciandosi dalle mura verso la valle l'effetto è quello sopra descritto




venerdì 23 ottobre 2009

Tigranakert (da lontano)

Una marcia lenta quella che ci ha portato a Tigranakert. Avvicinarci a ciò che resta dell'antica fortezza fondata nel I secolo A.C. è stato purtroppo smorzato nelle aspettative da alcuni inconvenienti che hanno disatteso la breve permanenza presso il luogo che la ospita. In antichità questa era una delle tante capitali omonime dell'Armenia Imperiale di Tigran III il Grande, di certo la più famosa, oltre che la più orientale di quell'Armenia che si estendeva dal Caspio al Mar Nero, e giù sino in Anatolia e alla Cilicia. Come detto venivamo da una deludente marcia in riepiegata da Aghdam, con l'autista impaurito e scosso. Talmente scombussolato dal tentativo di entrarvi, ad Aghdam, che alla fine non ci ha riservato affatto un trattamento discreto, non permettendoci neppure di avvicinarci alle rovine quel tanto che basta per poterle quanto meno distinguere dal tappeto terroso che le custodisce, potendo anzi ammirare solo da lontano la chiesa postuma costruitavi sopra. Con un tempo che purtroppo non favoriva alcun genere di panoramica della collina, ha pensato bene di alludere al pericolo proveniente dalle mine inesplose, laddove quotidianamente (solo dopo l'ho scoperto) archeologi di ogni sorta si avventurano alla ricerca di qualche nuovo rudere. Una volta saliti su per una straducola sassosa che costeggiava il sito archeologico, il risulato non proprio da belvedere è questo qua sopra. Il clima transilvano ha contribuito a suo modo a rendere spettrale al punto giusto sia la scampagnata che tutto il contesto, mentre la finissima e pizzicante pioggia ha abbreviato la nostra permanenza oramai proiettati verso una calda doccia...

giovedì 22 ottobre 2009

La mafia del cuore

Murato nella mia stanzetta a Yerevan. Silenzio che rimbomba, direi. Una trave di piombo depositata nello stomaco. Crampi dovuti ai ritmi alimentari non proprio eccelsi. Idee che vanno e vengono, mi sfiorano e poi si bruciano. Nuoto nell'insopprimibile assenza di fosforo. E provo vagamente a concentrarmi su questi karabakhti, sul loro esser così maledettamente vagi. Come me. Il pomeriggio è passato nel tentativo di farmi spazio fra le vittime dei miei pensieri. Ricavarmi uno spazio per poter dare ossigeno al cervello senza ingombri e pulviscoli.
Così stordito da un'apparire colpevole - ai miei occhi viziati dal gusto della sicurezza, e a causa di un non-esser-colpevole di nessuno. Non c'è male maggiore dell'assenza di male. Una pulizia della coscienza che induce al sospiro del finale senza macchia, del tutto è andato come doveva andare, abbiamo provato, abbiamo capito, siamo entrambi salvi, affamati ma salvi. Salvi da cosa? Dall'esserci fatti del male, spero...
In un sereno coinvolgersi di sensi e parti svariate del proprio corpo, in un giaciglio odoroso e sudaticcio, appena dopo un candido, feroce litigio, sarei ancora come una scheggia profondamente conficcata nell'esistenza di qualcuno, qualcuno... ma da qua è difficile, anche per me.
Che lo voglia o no, la mia istintuale vocazione antropologica mi tiene lontano da altre, altrettanto sgargianti varietà di vissuto. La mia pessima condotta pratica fa il resto, o almeno, lo ha fatto sino ad ora: non sentendomi però così male da divenire oggi tanto masochista da accettare il cordoglio come parte integrante della vita, facendosene una curiosa e stupita ragione. Questo equivarrebbe a scoprire a metà della nostra vita attiva (che equivale all'incirca alla mia età), che il cielo è azzurro e che il fuoco ustiona.
La costanza cementizia che ci contraddistingue caratterizza anche il nostro modo di finirci. Senza che nessuno di noi cambi di un non nulla.
Fummo immutabili, ma non passivi. Fui freddo, ma non vuoto. Freddo di un inverno di montagna, con il sole che ti scotta se non stai particolarmente attento o ti proteggi con le dovute lozioni...C'è stata troppa ombra nel mio inverno, questo lo so.
Scontrarci è stato comunque provvidenziale, perderci...vedremo cosa sarà.
C'è un senso dietro quello che penso, e che scrivo. Al di sotto di tutta questo magmatico provarci e riprovarci, si trova un circostanziale sedimento di verità. Voglio utilizzarlo, per stuzzicare la mia voglia di avere una risposta a tutto.
Questa verità approssimativa, abbozzata e parziale, è che non si può e non si deve scegliere cosa fare e come farlo, quando si è innamorati. C'è una parte del nostro celebro, quella che chiamiamo "cuore", che non ci da ascolto, ed innegabilmente una volta ogni tanto ci chiede il suo pizzo, ci fa insomma le sue richieste. Indeclinabili. Viene tutto da se ovviamente, diramandosi vibrante come scossa, dal petto in tutte le direzioni: e noi obbediamo a questo comando che diviene ciò che ci va o non ci va di fare, perchè l'obbedienza è l'unico modo di risponder presente al suo appello di esigenze. E' di fatto talvolta difficile incastrare pienamente tali modelli di volontà presunte, di diritti, di voglie, e smussare le pareti stoppose del nostro ego per adattarci e modellarci all'altro, di qualsiasi altro si tratti.
Meccanismo semplice, che induce a scontri innoqui - amorali forse - anche quando coinvolge enormi sentimenti, o addirittura intere parti di vita. Scontri dai quali usciamo o tutti vincitori o tutti sconfitti.
Battaglie umane, dettate da questo cuore.

martedì 20 ottobre 2009

Aghdam

Ci abbiamo provato per due volte a entrarvi, io, Michele ed Emanuela...Sulla città di Aghdam vige il monito del silenzio da parte degli apparati, e l'ordine di non condurvi turisti sprovvisti del permesso del Ministero della Difesa, delle sue guide, del suo controllo. Quanto sia difficile anche solo entrarvi nel suddetto Ministero lo ho testato negli ultimi giorni.
Qualcuno palesava la possibilità che vi fossero taxisti particolarmente lungimiranti e circospetti - basterebbe dire emancipati, ma non utilizzeremo in questa sede terminologie sesantottine - disposti a portarti dietro cospicuo ridargimento. Al primo tentativo ci e' andata male.
Il nostro accompagnatore, prima spavaldamente entusiasta sulla proposta di andare a dare un'occhiata da quelle parti, si fa cogliere da un attacco di panico durante l'ultima fase del tragitto, ci chiede di controllare il documento rilasciato in allegato al Visto con i dettagli della nostra visita, e all'ingresso della città svolta a sinistra, tacendo. Salta tutto.
Prima di partire, qualche malsana chiacchierata con locali particolarmente rispettosi della già citata normativa disposta al concludersi della guerra, e qualche non escludibile minaccia camuffata da amichevole avvertimento, hanno giocato a nostro sfavore sulla psicologia del pilota, il quale oltretutto, costeggiando in lontananza i villaggi parzialmente distrutti che circondano la città, ci ha imposto di non fare foto (un'altro dei dettami ministeriali, particolare di cui eravamo a conoscenza grazie alla Lonely Planet).
Insomma, era impaurito. E imbastardito. Abbiamo ripiegato sulla fortezza di Tigranakert, poco distante, sotto la pioggia e con una nebbia che anche se avessimo voluto, non ci avrebbe permesso di portarci a casa un buon ricordo fotografico (ma un'ottimo audio-visivo).

Purtroppo per questo autista (e per l'ordine dei taxisti in generale), per il Governo, per il Ministero della Difesa ed infine per il ligio Popolo della Repubblica del Nagorno-Karabakh, tutto questo proibizionismo - se pur assolutamente giustificato - ci ha fatto venire una altrettanto giustificata "quolina in bocca", a tal punto da abbandonare l'ipotesi Dadivank (monastero del V secolo D.C. arroccato a nord della regione) e riprovarci il giorno dopo, questa volta con la compagnia di A., del quale non si vuole menzionare altro se non il fatto che rimarra nella mia memoria, e nel mio cuore, anche solo per il miscuglio di buon umore e smaliziato anticonformismo che fruttano spesse volte tutta la mia simpatia a chi le possiede. Dopo un'oretta di macchina tiriamo dritto laddove il giorno prima avevamo svoltato, e senza indugio entriamo nella città proibita. Queste sono le immagini di un'altro posto semi-dimenticato, che possiede ciò nonostante la dignita' per sussurrare la sua storia...
Aghdam è un ex-centro mercantilizio e metropolotino, che contava alla fine degli anni '80 cento mila persone, in nettissima prevalenza Azera. Divenne luogo di scontro nel 1993, quando il conflitto armato Armeno-Azero, nella sua fase terminale, fini per convergere dalle regioni centrali del Karabakh dove si era dapprima sviluppato, verso l'esterno, in quello che fu il contrattacco Armeno e la conseguente espansione dell'esercito che occupò questo luogo e l'intera porzione del territorio azero circostante, una delle così dette "7 regioni". Cosi sono chiamate le fette di terra esterne al perimetro giuridico-territoriale della Regione Sovietica Autonoma del Nagorno-Karabakh, motivo di discussione e nodo centrale dlle trattative tutt'ora in corso. Sulla presa della citta' - per alcuni rapida e indolore, per altri lunga e sofferta - si sa che avvenne lottando tra Aghdam, bastione Azero, e Askeran, fortezza Armena espugnata e resa luogo per la preparazione degli attacchi. Dicono sia stata un'impresa, e che tutti i gruppi speciali furono chiamati all'opera durente l'ultimo assedio.
Il risultato di questo sull'architettura e l'urbanistica locale e' quello conseguente al bombardamento dei giorni che precedettero la presa definitiva di Aghdam; semplice, prosaico, laconico: non un tetto salvo, non una strada integra, scenario patinato del grigio manto pietroso delle macerie.
Dopo il cessate il fuoco firmato nel 1994, è stata ulteriormente sventrata e saccheggiata dei materiali utili alla ricostruzione delle altre citta' centrali: metalli, pietra lavorata, tubature, impianti eltettrici e così via...Finendo la sua miserabile storia divenedo "cerottiera" per le ferite citta' nemiche.
Oggi Aghdam e' scoperchiata dell'anima che un tempo deve avere percorso i suoi vicoli. Immaginare come doveva essere da viva è tuttavia impossibile, per me. A Stepanakert ho avuto il piacere di incontrare una Signora che vi andava spesso per fare le "grandi spese", "c'erano grandi negozi e magazzini" dice...
Un migliaio di contadini la abitano ora, e se gli passi troppo vicino ti guardano in cagnesco, con occhi ed espressioni torve ed impenetrabili...
Essendo tuttora zona di confine e per questo assai sensibile - per di più oggetto centrale delle discussioni interne agli inconcludenti negoziati per un eventuale "restituzione" o "cessione" all'Azerbaijan - non è stata di fatto restaurata, nè sminata. Non se ne sente particolarmente il bisogno. Ragion per cui in così pochi la frequentano...

sabato 17 ottobre 2009

Guardando all'Italia da lontano (parte prima)

Eccola l'ennesima pagliacciata mediatica. Il dissidente comunista, sovversivo antagonista, rosso pericolo senza-volto, torna a minacciare seriamente le Autorita' promettendo "sentenze" barbine e lotte armate decisamente retro', coinvolgendo la folla idiotizzata nel panico degli anni di piombo...

In contemporanea ai pedinamenti audiovisivi di uno tra i tanti nemici dell'eletto dal popolo, dei collusi, dei malfattori a colpi di legalita'. Tentativo tanto infantile quanto ebete di svergognare la "comune quotidinita' " di un civile in borghese al di fuori dell'orario lavorativo (infangando di fatto le comuni abitudini di noi titti. le mie. le vostre), durante lo svolgersi del quale Lavoro, quello del Giudice, avrebbe purtroppo intralciato il cammino irto di insidie giuridiche del nostro svergognato, inappagabile, onnivoro Cavaliere del reato...

La societa' liberal-democratica, nel suo modello italico, si sta cimentando, esercitando e specializzando da tempo nel gioco senza fine dei nemici immaginati, disegnati, autoprodotti, quali agirebbero legalmente sull'incarnazione dell'esecutivo meno esecutivo di sempre.

Ci si vuole muovere d'astuzia gridanto "al ladro" per distrarre e rubare a propria volta e di soppiatto il consenso, la parola, l'opinione. E' terribilmente facile agire sulla psicologia della massa quando si fa appello al nemico invisibile, quindi infinito e spaventoso perche' non-debellabile...Si vorrebbe generare lo scompiglio per violentare - nel qual caso - la Costituzione fra le urla di stupore e biasimo degli astanti impegnati a controllare un pericolo pubblico che non esiste, o fare luce su una situazione dipinta appositamente in un chiaro-scuro indiscernibile.

E' in atto da 15 anni un processo sofisticatissimo di "zombizzazione" (fatto prevalentemente di bombardamenti trasversali di mezze notizie, falsificazioni parziali che incollano alla realta' piuttosto che svanire nell'astratta menzogna) di una nazione che non sembra piu' saper reagire alla criminilazzazione dell'etere, del nulla, del vuoto. L'effetto venturo - e assolutamente auspicato da chi dirige tutto il marchingegno - sara' quello di sentirci un po' tutti colpevoli, e infondo, un po' tutti buoni e giusti. E' contro questa conseguenza psicologica che dovremmo lottare. E' questa lebbra infetta e tale morboso indebolimento che dobbiamo allontanare e sterilizzare con il fuoco.

Nella gara che ci si impone di vincere, quella che coivolge la vita politico-istituzionale dell'intero agonizzante sistema italiano, le regole diventano l'eccezione, la deroga, la preclusione, la censura, l'arbitrio ed infine la forza, insita in nuovi strumenti quali ad esempio gli apparati rivolti allo sputtanamento, e cosi via...

Noi siamo sullo stesso campo. Ci fanno credere di essere spettatori quando siamo partecipanti diretti. E ci stanno truccando la partita...

martedì 13 ottobre 2009

Ultimi giorni nel Karabakh

E' da troppo che non aggiorno questo blog, purtroppo o pefortuna... Nelle ultime settimane ho attraversato un po' delle lande nord-orientali di questa regione, in compagnia di due amici italiani e di una buona dose di "pazienza, insistenza e speranza". Chi ha potuto visitare con me le rovine di Tigranakert e la citta di Aghdam, sa cosa significano queste tre parole. Ho in mente di parlarne in seguito...

Vorrei invece concentrarmi su un'altro aspetto che in questi giorni, e improvvisamente, si e' venuto a manifestare in questa terra di nessuno. Il soprabito sempre austero dell'uniorne sovietica...

Durante l'ultimo periodo ho cercato di frequentare istituzioni deputate all'istruzione e all'educazione delle masse quali le scuole statali (No 7 e 8), l'Universita' Mashotz e l'Univesita Statale di Stepanakert. Con piacevole eccezione della prima universita', in cui mi si e' consentito di entrare e frequentare gli studenti (se pur taciturni, guardingi e remissivi) e della scuola numero 8, all'interno della quale son penetrato grazie all'aiuto di una amica del ministero dell'educazione in loco, il resto e' stato un disastro. Laddove ho potuto sondare il terreno dialettico riguardante e lro condizioni materiali tramite quegli argomenti-sonda utili a farlo, ho potuto percepire, sinteticamente, che vi sono tre rilievi utili:

-nella misura in cui sanno non gli e' lecito parlare (censura);

-dove non sanno, non possono essere investiti del ruolo di interlocutori, e non sono infine nelle condizioni di sapere che cosa pensare (vuoto di informazioni);

-il discorso maggiormente in voga e' quello che si attiene uniformemente alla pratica politica della propaganda.

Detto in parole semplici, non mie ma di un amico franco-armeno trasferitosi qua 2 anni fa: "non gli si da la possibilita di pensare, di farsi un idea", che non sia omogenea al sistema di pensiero costruito e regnante, ufficialmente promosso dagli apparati, il discostarsi dal quale significa apertamente "offendere l'unita nazionale". Un aneddoto raccontatomi da questo ragazzo potrebbe essere ulteriormente delucidatorio. Nelle campagne e villaggi presenti nelle regioni periferiche della regione, le piu' povere, si trovano migliaia di ettari di terreno coltivabile completamente spogli, infrastrutture per l'irrigazione bloccate da decenni, ed un arretrato sistema di sfruttamento agricolo. Chiedendo delle spiegazioni a riguardo - e nel tentativo di ottimizzarne l'agricoltura in favole dei locali - ha potuto constatare come non vi sia innazitutto un idea della responsabilita' (ne tanto meno dello spreco legato all'inutilizzo di queste terre). Conseguenza diretta di questo fatto, a suo dire - nessuna presenza di un concetto di miglioramento nella gestione diretta della fattoria e delle condizioni di sussistenza da essa derivanti. Le cose stanno cosi', congelate. Il cambiamento e' del tutto assente nell'uso collettivo dell'affare professionale (pur potendo legalmente agire in questo senso). Credo, sia in attivo che in passivo: ovvero, non puoi decurtarli di un milligrammo di terra nella misura in cui un aggiunta della medesima non e' assolutamente contemplabile. Ovviamente, ammesso che non sia il governo a farlo. 

Tornando al discorso centrale, le strutture educative - l'universita' statale e la scuola numero 8 - si sono dimostrate nei miei riguardi assai spontanee, genuine, come dire....

Mi hanno sbattuto fuori dall'universita' prima con un echeggiante "NO" del rettore di fronte al permesso del ministero, il quale fra l'altro si incazza come un fabbro e comincia a blaterare strafalcioni contro il mio NON PARLARE RUSSO, con una povera inconsapevole segretaria semi in lacrime che sotto voce provava a sillabare qualcosa tipo "scusa", "non e' arrabbiato con te", "torna domani". Il giorno successivo mi ci reco ben piu' agguerrito, voglioso di spiegazioni esaustive, pronto a far valere le mie carte, lettere di presentazioni, nomi e cognomi di chi mi aveva dato carta bianca per lavorare in quel campo, insomma fiduciari. Anche disponibile a raccontare qualche pagliacciata sul "lei non sa chi sono io"(come suggeriva qualcuno). Non ho neppure finito di motivare il mio ritorno in quell'edificio, vengo accompagnato per il gomito alla porta, con sonoro sbattere di porta. L'ultima provocatoria affermazione che hanno potuto ascoltare le mie orecchie e' stata quella di una Prof. che ha gridato mentre mi allotanavo: "I'm considering this task risolved". Vaffanculo...

Naturalmente la notizia che il rettore aveva bruciato in persona la mia proposta si e' sparsa per l'edificio in men che non si dica, su per giu' in 24 ore, e ora sono divenuto il lebbroso. L'innavicinabile da ogni studente (nonche' forse il pericolo pubblico numero uno)...ciao universita'...

La direttrice della scuola numero 7 invece e' stata molto piu' macchiavellica, complice il mio interprete, il quale e' molto piu' interno a questo gioco di quanto potessi aspettarmi. Sono un ingenuo, naturalmente... Prima ha chiesto che mi allontanassi dal personale (e dalla scuola al contempo) dato che dal ministero aveva ricevuto ordine di non divulgare notizie. Cio' e' a mio avviso comprensibile. Cio' detto, poche ore dopo, con il beneplacito del Ministero dell Educazione ed il numero personale del cellulare del Ministro, il quale si era messo a disposizione per una eventuale chiamata risolutoria nel giro di poche ore ed in caso di necessita', mi fa presente che lei non mi conosce, che dovrei essere accompagnato da un responsabile del ministero per tutta la durata dell'intervista, e di fronte a cio', l'interprete si dimentica (...) di dargli il numero del ministro per avere la strada libera, dicendomi (dopo un quarto d'ora di conversazione tra loro due, e sorrisi che si sprecano, in una lingua ahime' incomprensibile) "non puoi fare niente, mi dispiace". E io: "ma gli hai dato il numero?". "Mi dispiace, ma non puoi fare niente, e' molto dipiaciuta. Lei e' molto brava, io la conosco, conosce tutta la mia famiglia, e' sincera..." e bla bla bla.

Viva lo stato di potere autoritario. Viva le menti indebolite da legacci dogmatico-burocratici. Evviva il buio del libero pensare, sul quale vigila l'alta torre dell'apparato politico-militare. Il karabakh e' un giardino democratico per visitatori inconsapevoli costituito a scopi turistici! Per chi ci vive, e' un continuo pensare alla fantasiosa fuga, o un continuo "non pensare", dipende da quanto sei fortunato...

Ora forse ho la spiegazione del perche' le conversazioni-intervista con adolescenti finiscono sempre per fallire in un "parlami dell'Europa"...

L'italia sta andando proprio in questa direzione. Ma su questo scrivero' magari quando torno, comparativamente...

mercoledì 23 settembre 2009

Karabakh Moments #2 Shushi


Shushi, citta' ribattezzata da una memoria recente che la ricorda roccaforte musulmana, dalla quale l'esercito azero bombardava Stepanakert e i paesi limitrofi, "valorosamente" espugnata dall'esercito karabakhzo la notte tra l'8 e il 9 maggio 1992, sancendo la fine del conflitto nelle regioni centrali del Karabakh.

Teatro di uno scontro sanguinario indimenticato, questa citta' e' innalzata oggi ad archetipo di gloria patriottica: rovine di una storia, una cultura, uno modus vivendi economico e politico scomparsi radicalmente, per mano di una guerra combattuta fra vicini di casa, mossa da un odio che vuole la sua origine nel maggio del 1920, quando un pogrom anti-armeno decimo' la popolazione distruggendo i quartieri armeni e realizzando una maggioranza etnica azera, o forse nella successiva deliberazione del Comitato Sovietico Centrale del Caucaso presieduto da Josef Stalin nel 1921, il quale rese pubblica la decisione di annettere la regione autonoma del Nagorno-Karabakh alla Repubblica Socialista Sovietica dell Azerbaijan.

Un'Altare naturale della Patria nei confronti del quale e' impossibile rimanere inerti anche per chi non ne ha neppure mai sentito parlare prima di farsi esploratore... Il riscontro emotivo e partecipativo dei residenti e' facilmente riscontrabile: non troverete un cittadino di Stepanakert ad esempio, che, riconscendoti come turista, non ti chieda se "sei stato a Shushy?". Successivvamente, 8 volte su 10, con fiero sguardo e busto in fuori, come sapesse gia la risposta, vi chiedera' "che cosa ne pensate?" aspettandosi lacrimevoli cerimoniali sul coraggioso esercito armeno che ha dovuto rispondere con il fuoco alla brutalita azera e turcomanna, oppure, a snocciolarvi lui stesso dettagli, profili e ricordi di quella guerra che oggi si tramandano da padre in figlio, per generazioni. Ognuno nel karabakh possiede un bagaglio di racconti personalee viscerale, tale da farsi di volta in volta cantastorie, o grande oratore...

Difficile rispondergli che la guerra mi fa schifo, anche la sua....

L'ultima volta che mi e' stato chiesto ho tirato su la la manica del maglioncino e ho simulato qualcosa che si avvicinasse alla pelle d'oca...poi abbiamo taciuto entrambi...

Con 3000 anime al suo interno, prodotto di una politica di ripopolazione piuttosto fallimentare, oggi si presenta in alcune sue parti restaurata o in corso di ristruturazione, ma l'alone della guerra permane inesorabilmente a segnarne la storia recente, e a parlarci di quell'attimo infinito che l'ha spenta, forse non per sempre. Gli abitanti di questi luoghi dicono che un giorno questa citta' tornera' ad essere capitale dela Repubblica del Nagorno-Karabakh. Per ora di Lei si puo' parlarne solo al passato, qualora si voglia intuirne la solennita che la fece grande agli occhi di tutti i popoli del caucaso, e oltre caucaso.

Situata ad una altitudine di 1400-1800 metri sopra il livello del mare, fu prima capitale del Khanato del Karabakh, fondata nel 1750-1752 da Panah-Ali khan Javanshir, primo governatore del suddetto khanato autonomo, poi Capoluogo della omonima Regione. In origine popolosissima, fra il XIX ed il XX secolo contava fra i 30 e i 45000 abitanti. Divisa nella sua pianta nei quartieri musulmano-azero ed armeno, ma frequentata anche dalle aristocrazie persianiana e russa, che fra le mura di tale fortezza scelsero di stabili re i loro resort estivi, probabilmente trovavandovi riposo, ed una fonte d'ispirazione sempre viva.

Nel XIX secolo contava 22 fra giornali e riviste, venti delle quali in armeno, e due in russo. Difatti le sue tipografie erano arcinote nella regione, e non a caso il primo libro in armeno moderno trova qui il suo luogo di nascita. Luogo di numerosi spettacoli teatrali e musicali che la rendevano ameno centro ricreativo. Almeno 10 scuole erano presenti all'apice del suo splendore, di correnti discliplinari persiana, turca e armeno-cristiana.

La citta' contava sino al XX secolo numerose chiese armene ed una greco-russa, quest'ultima situata sulla piazza centrale. Di queste una sola, la Cattedrale di Ghazanchetsots, rimase sostanzialmente in piedi dopo la guerra, se pur con gravi danni strutturali. Oggi e' stata ricostrutita cosi com'era ed e' simbolo religioso e luogo di ritrovo cerimoniale di tutti gli armeni della periferia, i quali prediligono celebrare le loro cerimonie, matrimoni cosi' come battesimi, o la semplice eucarestia domenicale qui. Integre, anche se in pessimo stato, sono invece le tre moschee nel quartiere musulmano, una delle quali persiana, le altre turco-azere. Ci hanno detto che un ente per la salvaguardia dei beni culturali iraniano si sta occupando della rivalorizzazione di queste, con il beneplacito del Governo locale.
Dovunque cammini a Shushi puoi vedere, sentire, persino annusare le tracce di una convivenza oramai trascorsa. Ovunque ti muovi viene da chiederti come un tale bacino inter-etnico e culturale, luogo di passaggio di molte genti, di molti occhi, di usi e costumi diversi, possa diventare cosi' spettrale, vuoto specchio dei nazionalismi figli del secolo XIX...




lunedì 21 settembre 2009

Karabakh moments #1 Il canyon di Shushi

Finalmente ho trovato un internet point che mi consente di buttarvi li qualche immagine. Devo recuperare un po' di giornate, circostanze, eventi. Approfittero' delle foto che ho ricevuto da un amico questa mattina, per pescare a random alcune esperienze


Io e alcuni amici, Veronica, Emmanuele e il piccolo Nicolo', tre indomiti ed eroici itaiani conosciuti provvidenzialmente al residence di Yerevan, ci rincontriamo nel Karabakh per saziare la nostra fame d'esplorazione. Come promesso.




Con noi un altro fondamentale elemento:Marut, il ragazzo nella cui casa tuttora permango, e con la cui famiglia coabito. Marut e' nato nella regione di Martakert, a Nord di Stepanakert. Stabilitosi nel centro politico della regione piccolissimo, ha sempre vissuto qui, e conserva infiniti ricordi e memorie di questo posto, di ogni suo angolo, di ogni sua strada...


La giornata in questone, credo di non sbagliare nel dire che era l'8 settembre, l'abbiamo passata a Shushi, tra le disgraziate rovine di questo antico centro politico-culturale, dove Marut ha potuto istruirci sulle particolarita' storiche del complesso disastrato dal conflitto del 1992, e farci da cicerone sin dalle sue pendici, sulla strada da Stepanakert dove abbiamo incontrato uno dei Panzer utilizzato durante la guerra, simbolo militare, memoria vivissima del conflitto - sino alle alture remote e bucoliche, dove abbiamo potuto gustare un birra Gyumry a testa, sedute su qualche macinio, a prodigarci in autoscatti come solo un viaggiatore dei piu' solitari avrebbe potuto, per poi visitare una grotta risalente a non si sa bene quale periodo sull'estrema cuspide della montagna, dopo una scarpinata su e giu per la china spigolosa della montagna...



Poi cala la sera. Tempo per una doccia veloce, e veniamo invitati a cena da Lusine, giornalista in carriera per RFE/RL, amica e collega di Marut nel quotidiano locale, Stepanakert Press, ansiosa di darci la sua ospitalita', presentarci tutta la sua famiglia e passare una serata di amichevole compagnia. La cena tipica karabakhza consistente in pane e formaggio, pasta tipo "stelline" di grano duro in brodo, pannocchie bollite, insalata, dolcetti, te, caffe e vodka, ha pagato bene, e siamo poi finiti a chiacchierare in tutte le lingue utili ad una benefica comunicazione, degli argomenti piu' svariati, in una via di mezzo fra l'ONU e Babele, non potendo far altro che finire con l'intonare qualche canzone italiana. Sull'onda dell'entusiasmo qualcuno s'e' inevitabilmente messo a ballare! Sia chiaro, con notevole apprezzamento degli invitati!
Questo e' il Karabakh....

venerdì 18 settembre 2009

Kabul-Pavia

Mentre cercavo lucidi aggiornamenti de-martirizzati sui nostri connazionali deceduti meno di 24 ore fa in Afghanistan, mi sono imbattutto in un articolo del solito puntualissimo Marco Travaglio
( http://www.voglioscendere.ilcannocchiale.it/ leggere "Storia di un detenuto da nulla")
Al di la dei risvolti politico-etici, tornaconto ideologici e della solita propaganda mediatica all'italiana che seppellisce dei fatti e ne assurge altri a ruolo guida per un educazione bouffet che ci vede oramai indigesti anfitrioni, ho scorto dietro tale articolo un affermazione filosoficamente interessante, anche e soprattutto per la sua modestia:
La morte e' molti volti di un unica espressione.
La morte semplice, la morte di nessuno, la morte per sentito dire, la morte provata, la morte veduta, la morte del forestiero, la morte fuori e dentro casa, la morte pubblicitaria, la morte segreta, la morte escatologica, la morte soteriologica, la morte simbolica, la morte di resurrezione, la morte della morte...
Ovviamente, lungi dal poter attingere ad un modello puro (di qualsivoglia fenomeno, si intende), poiche' il "tutto" di un evento (i suoi elementi significanti) si rimescola nel calderone del nostro giudizio - piu' meno mediato, condizionato, ordinato, e' in questo atto che viene fornito ad esso evento un valore, fase conclusiva del processo critico del giudizio stesso.
Curioso come questo processo, poi, fornisca nuova linfa per i nostri giudizi venturi. In un certo qual modo, funge da precedente, precendente del precedente, e cosi' via....
Una giurisprudenza analogica della valorizzazione.

domenica 13 settembre 2009

13/09/2009

Domenica pomeriggio. Una settimana nel Karabakh.
L'ambientamento e' ancora in corso...piuttosto che agli usi o costumi locali, sento piu' la necessita' di mettermi in pari con me stesso, rincorrendo un modo di pensare, quello karabakhtzo, ancora fumoso e inafferrabile

L'allaciamento a internet dei point a Stepanakert e' per la maggior parte straordinariamente lento, e quando dotato di una velocita ragguardevole, sono i PC a manifestare piu' di un problema con la mia chiavetta USB. Ecco il motivo per il quale non mi riesce di buttare qualche immagine in pasto ai miei lettori.

Il viaggio per arrivare fino a qua e' stato micidiale: 7 ore da Yerevan a Stepanakert, in tutto circa 300 km, in Mashurtka, furgoncino tipo Ducato bianco, allestito a minibus da 15 posti autista compreso, il quale ha la peculiarita economico-soliodale di non partire sino a quando non e' pieno, ritardando sulla tabella di marcia anche ore se necessario. Stipatissimo di bagagli, rifornimenti, risorse alimentari di ogni tipo. Questo mezzo di trasporto locale possiede fra l'altro una forza accellerativa pari a zero, un forte attrito su terreno, e una velocita' di crocera che varia grandemente a seconda della geografia del percorso, con variazioni che vanno dai 100 kmh in discesa fino a scendere sotto i 15 kmh in salita...inutile dire che il territorio prevalentemente montuoso dell'armenia non ti permette completamente di fare salotto durante il viaggio...

La quantita' di paesaggi incontrati d'altro canto, ha supplito alla mancanza di comodita': se pur schiacciato sul fondo, pressato da altri tizi, damigiane d'acqua, un attrezzo da palestra e una bustona di verdure, gli scorci di armenia che via via di susseguivano, dall'arido-roccioso, passando per il semi-desertico sino al boschivo, hanno reso a mio giudizio un buon servizio, complementare del precedente, facendo valere in toto il prezzo della traversata.

venerdì 11 settembre 2009

Secondo tempo

Cinque giorni nel Karabakh sono di certo insufficienti per poterne parlare approfonditamente.
Difatti non ne parlero' affatto. Non intendo descrivere le sue forme. Io non so riconoscerle.
Tutto cio' che ho pensato di questa regione, e molto di quel che sta scritto sui libri, sono una pantomimica messa in scena della realta', nonche', credo, alcuni diversi ma astuti modi per parlare di qualcosa di cui non si vogliono far trasparire le profondita', le sfumature impossibili, gli spessori non euclidei. Una finta matematica narrativa, un assurdita non svelabile...
Ho avuto modo di confrontarmi con alcuni colleghi, dotati indubbiamente di strumenti infinitamente piu' precisi dei miei: ne ho provato disgusto e umiliazione, sentendomi ceco e muto, murato vivo in un'anfratto profondissimo dal quale non ho mai potuto vedere il mondo, pur gridandone aspramente le ingiustizie!(...senza volerlo ho parlato di platone...me ne accorgo ora che rileggo...ho fatto mia l'allegoria dello sciocco)
Mi sono affacciato nell'anticamera del volgo, nel modo il meno partecipativo possibile, e sono rimasto chiuso dentro.
Ho provato ha spiegarmi cosa cercavo una volta per tutte, sono rimasto zitto per quasi un'ora di fronte all'evidente incongruenza fra l'armenita' del Karabakh e le mie frottole.
Il colpo e' stato letale. Come avessi perso un arto.
Lo spaccato offertomi da questa societa' e dalle sue dinamiche (ma soprattutto da cio' che sarebbe bene studiare, approfondire, astrarre) non corrisponde affatto al modo in cui l'avevo pensata e attesa. Non solo la traccia che volevo seguire non esiste, ma anche l'illustrazione di partenza, la quale credevo fermamente fosse ben abbozzata, affidabile, o per cosi' dire, un'isola sicura dalla quale ripartire ad ogni occasione, ad ogni passo falso, e' fasulla e poco ci manca affinche nei prossima giorni venga risucchiato da queste maree e sprofondi nell'abisso dell' incomprensione, del monologo introspettivo ed intimista, per - in fine - sfociare nell'improduttiva e definitiva messa in discussione di me, e di me solo.
Pleonastico specificare che sono ben lungi dall'ipotesi di portare al cospetto della commissione una tesi di antropologia dell'antropologo, tanto meno quando l'antropologo sarei io...
Cio' che sta sul tavolo degli imputati a questo punto, e' il mio modo di guardare a mondo. Riparto da qui. Sara meraviglioso riscoprire certe cose...a non tutti capita...probabilmente sono fortunato. Credo fermamente difatti, che questo tepore diffuso su tutto il corpo sia indizio di una qualche crescita in qualche zona del mio corpo.
Non ho mai negato che questa fosse l'occasione per capire la mia affinita' con questa professione. Speravo a dire il vero non fosse solo questo...
Al momento sto ancora navigando testardamente contro corrente, ma manca davvero poco affinche riesca a girare la mia malmessa zattera in direzione della rotta privilegiata...in direzione di quell'orizzonte del quale ora scorgo sono un evanescente bagliore.
Se facessi lo sforzo di girare la testa leggerei a chiarissime lettere il suo messaggio. Che non sono affatto un antropologo, e nella mia testa non lo sono mai stato.
Se per caso volessi senza paura fissare il punto in cui sole e terra si toccano schiudendosi in una raggiera di sottili frecce luccicanti, leggerei tutto il mio futuro. Esso e' assai distante dall'antropologia, se l'antropologia e' cio' che credevo di poter dare a questa disciplina, o meglio, a quell'istituto di conoscenze.
Dovrei piangere perche' ho fallito.
Sorrido perche' ho una risposta.


mercoledì 26 agosto 2009

U N D E R C O N S T R U N C T I O N

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Sta mattina spioviggina su Yerevan, e sulla mia voglia di uscire di casa. La città si è fatta un pò più romantica avvolta nel mantello della "lunga ottobrata": qualche giorno fa, con uno spettacolo pirotecnico di lampi e tuoni, si è inaugurata la primavera armena. Dicono durerà tre mesi; poi l'inverno. Quando io starò andandomene...
Ad un mese dalla mia partenza debbo ammettere che il tempo è volato, di certo agevolato dall'intraprendenza progettuale, l'attenzione e la dedizione versate sulle risorse antropologiche di questo paese: sino ad ora non ho avuto molto tempo per accorgermi del tempo.Verrà anche quel momento, quell'insidia.
In settimana povrei ricevere i documenti per il Karabakh; dunque quella dopo dovrei partire... alla ricerca di qualcosa che va ben al di là delle decantate epopee omeriche, così come dell'infinito peregrinare umano sempre in direzione di un insperata Arca dell'Alleanza, del Ghral, oppure dell'Eldorado Amerinda...
L'idea: il midollo spinale di un progetto.
Non so quando e se sboccerà; ignoro il tempo necessario a farla crescere; non sono nemmeno sicuro che non si tratti di un eco secolare e profondo, ma senza fonte. Non posso infine escludere possa trattarsi di un'evaporazione esistenziale; daltronde potrebbe anche essere il più grosso fallimento dela mia vita, il più strenuo antagonista, la più arida condanna.
Naturalmente l'effetto sortito è un'esperienza di non-pianificazione alla quale non ero abituato, e che mi fa tremare: un senso di trasgressione metodologica, un barboneggiare teorico, uno starsene scalzo sul marciapiede delle scienze sociali, elemosinando la fortuna bastevole per la realizzazione quotidiana!
Ciò detto: aspetto, grattandomi la pancia...

sabato 15 agosto 2009

Essere e Tempo

Il passato è un'infiltrazione nella camera stagna del presente. Una muffa scomoda che mai smette d'espandere se stessa, sbavando sui bordi, continuando ad inghiottire, inscurire, ri-pigmentare.
Eppure, questa, è solo una visione poetico-retorica della sua immagine, del passato dico: così per come lo penso, e lo con-formo...come un nemico da sconfiggere che impuzza l'oggi ad ogni sguardo a ritroso, come il solo a farsi sentire in mezzo a tanto baccano (per quanto grida, quasi sembra odiarti a sua volta), e così verosimilmente autonomo e distaccato dal mio governare, o controlare la vita, che pare indubbiamente non esserne più parte, né nella struttura, né nella funzione.
Ma è presente - ed eccoci quà - a testimomiare il fatto che esso ha in pugno il mio essere presente, i miei giorni, tutto il mio futuro, sino alla morte.

Ogni istante che diviene passato non è più mio. E la mia vita diviene sempre più sua.
Dipendente....Inchiodata da un traliccio sempre più profondo

Ma se abbandonassi - ora e per sempre - l'acre nucleo retorico che pervade questa argomentazione, migliorando e relativizzando il tutto con una visione tanto più semplice quanto lontana dall'esser intelligibile (almeno per me), che sia cioè, "sinteticamente" tutto un flusso innoquo, senza fratture fra ieri, oggi e domani... si, proprio così!...e che sono invece i soli "fatti" nel tempo a comportarsi come "invasioni" sia spazio che temporali.

Allora, chi possiede l'arte del dimenticare ottiene il dominio nevralgico del tempo fratto l'esistenza: ossia la vita? Essa allora (per chi come noi lupi senza-dio si attiene al minimo sindacale delle certezze - o per meglio dire, del chiarore) non è altro che un accorgersi del tempo tramite la memoria. Niente di più.
Ovvero, una precisa entità volumetrica(1) (nonchè ontologica, come amano dire i filosofi) in un sistema di rapporti specifico ad un piano diacronico (ipoteticamente infinito) che la contiene. Il tempo.


Se questo è l'effetto alterante che la pratica del Ripensare ha su me solo - pratica tanto cara, tra gli altri, a De Martino, cosa può avvenire allora ad un popolo imbevuto di delirante ri-storicizzazione dell'evento passato?

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(1) Se questa sia un Io universale e congenitamente auto-appreso, o un Esserci sempre contestuale, situazionale, quale l' "essere nel mondo", non è dato saperlo.

domenica 9 agosto 2009

Verso il lago Sevan


Ieri Lago Sevan.

Un'ora di macchina in mezzo alla montuosa ed ispida campagna armena. Canion, tornanti, radure. Su una strada vecchia quanto l'unione sovietica, ma molto, molto messa meglio.
Talvolta, nei punti lievemente scoscesi, rimaneva dritta davanti a noi, come a tagliare in due l'orizzonte.
L'armenia rurale è la vera armenia, immagino.
Quella decimata, storicamente, dagli sviluppi post-guerra fredda piuttosto che dall'assenza di sviluppo in sé.
Qualche scheletrica cittadina che sbuca ogni tanto - paesaggio in cui spruzzi di casette quadrangolari trasudanti grigiore sparse in qua e in la per le colline, immancabili e monotone palazzine di memoria architettonica pan-sovietica, che talvolta ne segnalano i lineamenti principali, contrastano meravigliosamente con il tessuto patinato ed armoinioso che le attornia, fatto di roccia, sterrati, ma soprattutto appezzamenti coltivati, che si susseguono miscellanei in decine e decine di tonalita del verde, dell'ocra e del marrone - terrastro, senese, sabbioso...
E che sopra ogni cosa segnalano - al contempo - la presenza di vita e di resistenza.

Delizioso e melanconico.
Genuino...
Probabilmente sono in fallo, ma l'Armenia, e forse il Caucaso tutto, appariono come lo specchio critico di un popolo disastrato dalla geografia. Dall'avere cioè un ruolo di cosi vitale importanza - separando l'eurasia dal medioriente, da doverne subire la realpolitik di entrambi. Stato permanente, questo, che li ha schiacciati su un lembo di terra franca nella quale sembra tutto permesso, e nulla possibile...


martedì 4 agosto 2009

Duracel in un mondo post-moderno (2)


Manciate di case irregolari sparse come semina; frontoni collinari che sbucano taglienti da sotto l'orizzonte e rendono lo scenario come di cartapesta; una pianta circolare, incavata come la bocca di un cratere, una città tappezzata di cemento - che costruisce sul cemento senza raccoglierne mai le mecerie.

In questo pregno spigolo di mondo, almeno due dimensioni si incrociano, e sono quelle che l'etnocentrica, orgogliosa pratica del giusizio, vivente nell'omogeneo e mai nel difforme, può dare: fiera di sprezzante, incontrollabile superbia. L'atto di accorgersi di questo sempre imparziale ritratto retorico - di per se sufficente ad imboccare il sentiero dell'auto-coscienza critica - se non mi tratterrà dal sentirlo, può quanto meno evitarmi di doverlo professare come scienza estetica.

Ai miei occhi dunque, il presente a Yerevan è promiscuo, traditore, ingannevole.
C'è un presente distante, l'ho scorto. Come fosse storia, antico, rudereccio, leggendario, incomprensibilmente splendente; se ne sta la, una volta dietro un ricurvo edificio, un'altra appolaiato sul dorso di una montagna, talvolta persino in fondo alla strada, ma sempre alla stessa distantza, e più cammini più lui è altrove, nel raggio di alcune centinaia di metri, tutto attorno in modo diseguale, ma sempre alla stessa diastanza.

Poi c'è un presente che riconsco, come riconoscerei varicella e pustole da batterio. Indicatori visibile di contaminazione che evocano una sola immediata certezza: quella del segno. C'è qualcosa di noi qua, o meglio, anche del nostro mondo, o quantomeno maledettamente comune al nostro: mi rifersico in particolar modo all'uso del costume pubblicitario-carismatico. L'uso che ne viene fatto, mi incolla i piedi al suolo in modo brutale...

Da un lato ne vien fuori un effetto parodiale, carnevalesco, con la messa in scacco dell'ideologia-globalizzazione nell'uso pagliaccesco dell'oggetto-messaggio capillarmente diffuso, presenza possibile di almeno un margine tra l'indossato e l'indossatore, tra contenuto e contenitore(1), invocante come uno stato di disagio. Dall'altro, l'uso che ne viene fatto è però religioso - nelle forme, nella maniera cosi come nella frequenza (scandita millimetricamente in un tempo che non scorre) sino al trapelante significato che tale impiego deve avere in questo contesto: visibilità, che chiama uguaglianza, che genera inoppugnabile conformismo.

E magari il tutto credendosi culturalmente liberi, mentre si sta solo imitando, con i costumi di scena portati li dalla nuova via della seta.

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(1) Si vuole richiamare la figura del Leonardi F. per il prestito di questo duo concettuale...

giovedì 30 luglio 2009

Duracel in un mondo post-moderno

Ok, erano solo le batterie praghensi, che non si sa come, facevano collassare la macchina fotografica quando premevo il pulsante "scatta". Ho pensato di cambiare batterie prima di disperarmi e convincermi che tutto era perduto!
Fatto sta che, qualcosa della mondializzazione, globalizzazione, e internazionalizzazione, conduce ineluttabilmente al mercato globale, cioè al farmi trovare delle Duracel il un baracchino gestito da un tizio simpatico, con il quale ho discusso pochi minuti dell'affare Ibrahimovic-Eto'o.
Comunque, questa è una foto-prova...non rende affatto l'idea del caotico che diviene architettura post-moderna, ossia di Yerevan. Essa è solo una bozza approssimativa di questa realtà decisamente assuefatta dalla deregolamentazione strutturale...
Non intendo discutere ora della commensurabilità della comprensibilità, ma sul serio vorrei farvi capire i significati che questa città mi ha trasmesso nell'immediato.
Pur essendo vero che ho un rapporto sentimentale con ogni città in cui ho vissuto, è sempre come la prima volta visitarne una nuova...
Qua le epoche architettoniche si sovrappongono, compenetrano e mischiano in un' essenza-collage squisitamente armena, che mi ci vorrà tempo prima di poter metabolizzare. Come in una stratigrafia schizofrenica, non si comprende bene dov'è nascosto l'antico, quando finisce il vecchio, e dove inizia il nuovo...

Per ora è tutto...Non appena possibile imposto delle cartelle fotografiche: ovvero sia, quando imparo a farle!